domenica 8 agosto 2010

Tu sei il top! (poesia dedicata)

Tu sei il Top
Sei la discografia dei Radiohead
Sei il breakfast quando te lo portano al bed
Sei il sacro e il profano
il vaccino e il richiamo
Sei il re della foresta
quell’ora prima di andare a una festa
sei la quiete, la mia tempesta,

Tu sei il Top
Sei la meta e la metà
la parte per il tutto,
il Tuttosport, il tuttosommato,
la vodka sul gelato,
il fritto misto, il vitello tonnato,
Sei l’aria distratta che mi ha innamorato,
Sei quando siamo sul più bello
la terza corda del violoncello
l’estate scorsa a Castiglioncello,

Tu sei il Top
sei la mia misura,
sei una small-un’extralarge senza paura,
sei attillata al mio cuore
plissettata ai miei sensi
ricamata nei miei ricordi
sei Ugo Tognazzi, sei Alberto Sordi…
sei l’ora che volge al desìo
l’ipotesi ch’esista un dio
la certezza che esisto anch’io…

Tu sei Top
Sei le intuizioni di Carmelo Bene
la sua distanza dai delitti e dalle pene
dalla gente per bene
da chi ti regala un osso, chi ti regala un rene,
l’elettorato che si astiene…
Sei l’acquolina e la sazietà
l’età di mezzo, la varietà,
Sei un capriccio di Paganini,
Raimondo Vianello…la Mondaini…
Sei quando piove tra via Roma e via Mazzini

Tu sei il Top
Sei il colore che mi sta meglio
Il sogno ricorrente
Sei un mezzosoprano…Un bel sottotenente…
Sei l’anima furbetta di Jovanotti
Sei quando i rigatoni son lì lì…e poi…son cotti!!
Sei la carbonara,
De Sica e la Ciociara,
tuttigiùperterra,
il Grande Freddo, la Grande Guerra,
quella temperatura che trovi solo in una serra…

Tu sei Top
Sei il ticchettìo di Fred Astaire
Il Cuore a nudo di Baudelaire
quello matto di Little Tony
Sei i 4 accordi che impari…e poi suoni…
La notte più chiara, il giorno più nero,
la camicia aperta di Tony Manero
le orme sulla neve in quel sentiero…

Tu sei il Top
Sei il mio stile, sei il mio look,
sei Palazzeschi…sei Palahnjuk,
Sim sala bin…sei Kim Ki Duk!!…
Sei l’America, in cui c’era una volta, di Leone,
sei la pappa, col pomodoro, della Pavone,
sei la terza B…l’Aspirina C
la promozione in serie D
l’entrata a gamba tesa, la lista della spesa,
d’Amalfi la più contessa, tra tutti la più contesa,
l’acqua in faccia della doccia
tutto il contrario di quello che scrive Moccia,
il finale della Spada nella Roccia
Sei la rianimazione del cartone in coma
la Retromarcia su Roma
la prima cosa bella che ho avuto dalla vita….
"è il tuo sorriso giovane e sei tu"…

Tu sei il Top
Sei il singulto del single
l’indulto che diventa culto
la pena preventiva
il viaggio di Felicia/ la mia partita I.V.A.
la piccola ondina quando svanisce a riva…
Sei polpa e succo dell’ananàs
il mare inquieto della Duras
“quan chem’astufiu e vadu a fé dui pass”…

Tu sei il Top
Sei la rabbia dolce di Silvia Platt
Il codice Pin del mio Bankomat
I programmi notturni di Rai Sat
Sei il fiocco sul regalo
il gomitolo e lo spago
domenica ti porterò sul lago…
sei Sarah Kane, sei Saramago,
scegli quello che vuoi… che intanto io pago!
Tu sei il Top
Sei quel che m’era sfuggito…
Il mio puzzle mai finito
2 Campari Soda e 3 Mojto
sentire recitare l’infinito…
Sei quando nel pensier mi fingo
come Clint Eastwood nei panni di Ringo
l’esultanza di chi grida Bingo!!

Tu sei il Top
di Bertold Brecht sei la lungimiranza
sei tutti gli oggetti di questa stanza
il pavimento per la mia danza
sei Calimero…la Miralanza
Sei le stagioni che son 4 sulla pizza…
e i matrimoni dentro i film di Kusturizza…
Sei quando taci o sei loquace
E più mi sfuggi e più mi piace
facciamo la guerra facciamo la pace
del 2010 sei la tessera Aiace…
la mia vongola verace…la mia sbronza di Riace…

Tu sei il Top
Sei la cartuccia nuova della stampante
Il cavallino rampante come il barone
l’insegna accesa del baraccone
lo zucchero filato, quello defilato,
vengo meglio da questo lato!
Sei il calcinculo del Luna Park
le creste dei Punk, le croste dei Dark
il giorno in cui non faranno più Quark!!
Sei più ferma d’un geco
più specifica di Umberto Eco
più immutabile d’una commedia di Cecov
Sei la Palma di Cannes, Il Leone di Venezia, l’Orso di Berlino,
tutti i pelouches che vorrebbe un bambino,
Sei una malattia rara,
una malìa, un’omelette, una zanzara,
il pranzo di Babette…un colpo di lupara!!

Continua…

(Michele di Mauro)

martedì 3 agosto 2010

Cosè L'Aquila oggi


di Enrico Macioci

Sono nato all’Aquila 35 anni fa, ho sempre vissuto all’Aquila, ero all’Aquila alle 3,32 del 6 aprile 2009, ero insieme all’oceano d’aquilani durante la manifestazione tenutasi all’Aquila il 16 giugno scorso (di cui quasi non s’è avuta notizia), ero insieme alle migliaia d’aquilani durante la manifestazione tenutasi a Roma il 7 luglio scorso (di cui per motivi non edificanti s’è avuta notizia), e sto scrivendo queste righe dall’Aquila, dove tuttora risiedo. Ciò credo mi legittimi a testimoniare in coscienza ciò che L’Aquila è divenuta nell’ultimo anno e mezzo.
Noi aquilani siamo stati gl’involontari – e sino ad ora almeno in parte inconsapevoli – protagonisti dell’apicale esplicitarsi della forza, dell’influenza e della capacità di distorsione che i massmedia hanno raggiunto in Italia. Un potere tanto più malefico quanto più subdolo, tanto più invincibile quanto più obliquo e, in definitiva, vile. Non posso definire in altro modo una divulgazione in larga parte scientemente mirata alla menzogna o, peggio ancora, all’uso strumentale del dramma. Un tradimento dei diritti non dirò già civili ma realmente e profondamente umani, e dunque un tradimento di tutti noi nella nostra integrità e nel nostro bisogno di giustizia e verità. Il travisamento più o meno clamoroso, da parte di non pochi organi informativi, della manifestazione romana del 7 luglio non è che l’ultimo tassello d’un puzzle che non saprei se chiamare diabolico o ridicolo – sempre che le due accezioni, superata una certa soglia, non si tocchino fino a combaciare.
Io c’ero il 7 luglio, ero a pochi metri dai poliziotti e dai carabinieri, mischiato ai miei concittadini, e nonostante abbia una coscienza lucida del Paese in cui vivo non ho potuto fare a meno d’amareggiarmi davanti a parecchi notiziari della sera e ad altrettanti giornali del mattino successivo. Mi sono sentito raggirato, ingannato e, se m’è consentito usare una parola forte, pugnalato. Come altrimenti dovrebbe reagire il libero cittadino d’una moderna democrazia se nel momento in cui manifesta i propri diritti alla vita la medesima democrazia fa finta di non intendere? Come deve reagire il libero cittadino d’una moderna democrazia se in questa democrazia non gli è consentito esporre le proprie urgenti necessità senza imbattersi in qualche corpo di guardia? Se il contatto con le autorità di tale moderna democrazia è sbarrato dai canali uditivi? Se la lontananza fisica è la regola cui sottoporre colui che ha qualcosa di pacifico ma fermo da obiettare? Mai come il 7 luglio scorso ho provato netta la sensazione d’una lontananza fatale fra l’individuo e l’autorità, d’uno iato doloroso fra noi in strada e loro dietro le persiane chiuse e irraggiungibili di Palazzo Chigi, Palazzo Grazioli e Palazzo Madama.
L’Aquila prima del sisma era una magnifica città che si reggeva su un’osmosi perfetta; il cuore pulsante della comunità era costituito dal centro storico, laddove si svolgeva il novantacinque per cento della vita sociale, laddove sorgevano gli esercizi commerciali, gli uffici, i bar, i ristoranti, le pizzerie, le trattorie, i pub, i gazebo, le piazze, i luoghi d’incontro, di svago, le manifestazioni culturali, il cinema, il teatro, le orchestre, laddove la gioventù del posto e quella universitaria trascorrevano il tempo libero così come le famiglie, i bambini, gli anziani. Questo centro era vasto; partendo dal parco del Castello Cinquecentesco si poteva camminare anche molto a lungo prima di sbucare fra i tigli della Villa Comunale oppure più giù ancora, sino allo sfogo d’erba e marmo della basilica di Santa Maria di Collemaggio e di Parco del Sole – e intanto attraversare il corso vecchio e quello nuovo, i Quattro Cantoni e i portici, e costeggiare Santa Maria Paganica e Piazza Palazzo, San Bernardino e Santa Giusta, Piazza Duomo e Costa Masciarelli, e poi gl’innumerevoli vicoli, gli angoli, i cortili, i campanili, le fontane, le piazzette, le chiese, i ritagli magici d’un tempo remoto giuntoci integro malgrado una storia travagliata. Adesso è dato percorrere sia il corso vecchio che (da alcune settimane) quello nuovo, tramutatisi però in un budello lungo il quale le immagini dei fotografi, ferme a prima di quel 6 aprile 2009, sbiadiscono in un triste e metaforico addio, le vetrine sono cieche, i turisti armati di digitali e telecamere riprendono inesausti i brani sghembi della città in pezzi e gli aquilani, se li si incontra, li si sente parlare soltanto di prime e seconde case, zona rossa, mutui, appalti, permessi, documenti, affitti, autonome sistemazioni; e dove infine gli appelli della cittadinanza scritti su fogli volanti se ne stanno appesi alle transenne che circondano i ponteggi, simili a ergastolani con le dita fra le sbarre. Il resto? Tutto chiuso. Sepolto da milioni di tonnellate di macerie non ancora rimosse. Fradicio per il freddo e il caldo, il sole e la pioggia, la neve e l’afa. Tutto inchiavardato entro gigantesche assi d’acciaio. Incappucciato. Imprigionato. Impacchettato. Messo in sicurezza, così s’usa dire. Messo al sicuro.
Al cuore pulsante del centro storico rispondeva, in un contrappunto impeccabile per semplicità ed efficacia, la periferia; non particolarmente bella ma ordinata, non pulitissima ma dignitosa, non attraente ma tutt’altro che repellente; non minuscola ma nemmeno enorme, a misura d’uomo, tranquilla, screziata di verde, coi monti a sporgerle sopra come giganti benigni e curiosi. Ma ecco che lo svuotamento del centro storico s’è scagliato per l’appunto sulla periferia, tramutandola in quell’alveare confuso e alienante che sta diventando, che è già diventata; ecco il traffico impazzito, le code chilometriche, la dispersione dei servizi, le baracche sorgere ovunque (un’autentica epidemia di baracche) e ovunque strappare alla terra il metro quadro, il decimetro quadro pur d’affermare, in un malinteso e delirante rigurgito di vita: io ci sono. Mi trovate qua. Io sono qua.
E oltre questa nuova periferia – che intanto è divenuta centro – la periferia nuovissima, che poi è l’attuale vera periferia: c’è chi la chiama progetto case, chi moduli, chi (forse in maniera più appropriata) new town; consiste in diciannove nuclei lontani dalla città (ovvero dalla vecchia periferia divenuta centro) e l’uno dall’altro, privi di negozi e luoghi d’aggregazione, dove chi non ha la macchina si rimette agli orari degli autobus oppure si rassegna a trascorrere la giornata in un’abitazione non sua, fra gente che non conosce, ingannando il tempo come può un ospite coatto a scadenza indeterminata: un trapianto d’umanità in piena regola, che poteva e doveva essere mitigato nella quantità e accorciato nella durata. Dentro le new town vivono decine di migliaia di persone; ma laddove i numeri rappresentano per alcuni un vanto – l’intera società si va riducendo a numero, con quel che di gelido e feroce un concetto del genere implica – io vedo alcune incontestabili realtà: isolamento, alienazione, noia, depressione, rabbia, frustrazione, ansia, coazione, nevrosi. E’ chiaro che lo stupro urbanistico/geografico – per cui il centro è stato trasfuso in periferia e la periferia è stata trasfusa in un’ultra-periferia – comporta i suoi costi da un punto di vista squisitamente umano; una società non può prescindere dalla terra su cui si fonda, né dal metodo che durante i secoli ha elaborato per rapportarvisi; il coniuge, il migliore amico, i genitori, i parenti, i conoscenti, persino le facce vagamente note contribuiscono a impastare l’esistenza e la psiche di ciascuno di noi; e subito dopo ci sono i posti, il bar all’angolo, il panettiere, il barbiere di fiducia, il dentista, l’ottico, la tavola calda, la biblioteca dove si conobbe la tal persona, e la sala studio dove si conobbe la tal altra, e poi ancora il marciapiede dove si sono macinati chilometri e ore, la colonna dove ci s’appoggiava a fumare, e poi il portone, la banchina, il tratto di strada, il sampietrino, l’aria; anche i posti respirano, e l’aria d’un posto non è mai uguale all’aria d’un altro posto, né tanto meno all’aria di quel medesimo posto violentato, squarciato e poi trasferito, portato via di peso.
Un ultimo concetto mi preme sottolineare, mentre il Governo sta decidendo se ripristinare le tasse a carico degli aquilani al cento per cento già da adesso, e mentre il Capo di questo Governo continua a ribadire che all’Aquila è stato compiuto un miracolo mai avvenuto nella storia dei disastri naturali, che il peggio è alle spalle e le cose volgono al sereno, e mentre l’opposizione non sa far di meglio che tenere dietro al Capo di questo Governo sul medesimo terreno inconcludente, relativista e parolaio: il concetto di futuro. In una società globalizzata che corre sempre più veloce – anche se non per forza sempre più avanti – dove il lavoro si fa mobile e rapido e sommamente incerto e le relazioni si liquidano e polverizzano, mi rendo conto che una pretesa di futuro possa apparire quasi patetica. Per un esecutivo che innalza a proprio vessillo la bandiera dell’agire, il feticcio ambiguo ma ideologicamente robusto dell’efficacia questi sono concetti fumosi, addirittura fastidiosi; una specie di starnuto nel bel mezzo d’un devoto silenzio. Qualche onorevole ha affermato in Parlamento che dovrebbero essere loro, i politici, a venire a protestare all’Aquila, dopo tutto quello che hanno fatto per noi e di cui noi non ci siamo nemmeno accorti. E’ sin troppo chiaro che chi parla così ragiona, ancora una volta, per numeri; ma i numeri al contrario di quel che si pensa sono corruttibili, è facile e comodo portarli dalla propria parte con un po’ di retorica, di faccia tosta e d’incoscienza. I numeri sono opinabili, specie quando figurano in mano a chi ce li fornisce. I numeri, in bocca a chi detiene il potere, possono benissimo tramutarsi in capricci. Allora io torno al concetto di futuro perché si tratta d’un concetto non monetizzabile né passibile di sondaggi, perché l’essere umano si nutre di futuro, perché l’essere umano deve poter dire a se stesso in ogni momento d’ogni santo giorno: domani farò questo, dopodomani tenterò quest’altro. Senza che tali auspici significhino un’automatica garanzia di successo, ma con la ragionevole speranza di poterli almeno declinare, di poterli pensare, d’averne il diritto.
All’Aquila il futuro non esiste più; al suo posto c’è un caos di burocrazia, imprecazioni, proteste, risentimenti e confusione. Le vecchie generazioni, sgomente e piombate in un brutto sogno difficile persino da raccontare, in un incubo appiccicoso e fangoso che nessuna parola e nessuna promessa può più lavar via, si rifugiano nel passato e paiono svanire come fantasmi; le nuove temono di dover cercare nella fuga una nuova possibilità che non le falci a mezzo; le nuovissime sbandano tra una difficile situazione scolastica e relazionale e una lunghissima fila di bar tirati su furiosamente lungo Via della Croce Rossa, una delle principali arterie di traffico diurno e notturno, piena di fari e fumo e clacson. Ci stiamo abituando a convivere con l’indistinto, il nebuloso, il si vedrà, il magari, il chissà; stiamo divenendo ontologicamente insicuri; noi siamo, nell’epoca del precariato, i precari per eccellenza; e la nostra colpa è misurabile al ragguardevole grado di 6,3 della scala Richter. Una società cosiddetta civile, una moderna democrazia ci sta spingendo sull’orlo d’un baratro esistenziale: non sapere non soltanto cosa sarà di noi ma neppure come, o perché, o per chi, o quando, o se. Perfino il Gran Sasso lassù mi pare che frema, al di sopra dei boschi, quando a sera scende il sole.