domenica 16 dicembre 2012

Esisto, io?


"Di lì a poco il governo approvò nuove norme che disciplinavano l'abbigliamento delle donne nei luoghi pubblici, costringendole a portare o il chador o la veste lunga e il velo. L'esperienza aveva già insegnato che l'unica maniera per far osservare quelle regole era imporle con la forza. Così, malgrado le proteste che si levarono da più parti, le nuove disposizioni entrarono in vigore prima nei luoghi di lavoro e più tardi nei negozi, e i proprietari furono diffidati dal servire clienti a capo scoperto. Le pene previste per le infrazioni andavano da una semplice multa fino a un massimo di settantasei  frustate e a un periodo di detenzione.
Mentre provo a colmare le lacune della memoria, mi accorgo di come la sensazione che avvertivo allora sempre più forte, di precipitare nel vuoto o in un abisso, fosse legata a due fatti pressoché concomitanti, la guerra e la perdita del mio lavoro. All'epoca non me ne capacitavo, perché la routine quotidiana contribuiva a creare un'illusione di stabilità. Adesso che non potevo più pensare a me come a un'insegnante, una scrittrice, che non potevo più indossare quello che volevo, né camminare per strada al mio passo, gridare se mi andava di farlo o dare una pacca sulla spalla a un collega maschio, adesso che tutto ciò era diventato illegale, mi sentivo evanescente, artificiale, un personaggio immaginario scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma qualsiasi sarebbe bastata a cancellare.
Quella sensazione di irrealtà mi portò a inventare nuovi giochi, che a ripensarci ora mi sembrano più che altro tecniche di sopravvivenza. L'ossessione per il velo mi aveva indotto a comprare un'ampia veste nera che mi copriva fino alle caviglie, con lunghe maniche a kimono. Mi ero abituata a nascondere le mani nella maniche, come se non le avessi più. A poco a poco, arrivai a fingere che quando portavo la veste tutto il mio corpo si dissolvesse: restava solo la stoffa con la mia forma, che andava in giro guidata da una forza invisibile.
Sono in grado di risalire con una certa precisione al momento esatto in cui cominciai a sentirmi così: avvenne il giorno in cui accompagnai al ministero dell'Istruzione superiore un'amica che voleva convalidare il suo diploma. Fummo perquisite dalla testa ai piedi; fra le molestie sessuali che ho subito in vita mia, quella è stata una delle peggiori. Una donna mi ordinò di alzare le mani, su e ancora più su, mentre cominciava a tastarmi scrupolosamente ogni parte del corpo. Mi fece notare che sembrava non portassi niente sotto la veste. Le risposi che ciò che portavo sotto la veste non era affar suo. Mi porse un fazzoletto di carta e mi intimò di strofinarmelo sulle guance per togliermi quella schifezza che mi ero messa in faccia. Le dissi che la mia faccia era pulita. Allora prese il fazzoletto e me lo passò sulle guance, e siccome non ottenne i risultati sperati, perché come le avevo detto non ero truccata, sfregò ancora più forte, tanto che sembrava volesse strapparmi via la pelle.
Il viso mi bruciava, e mi sentivo sporca; il mio corpo era come una maglietta sudata e lercia, da buttar via. In quel momento mi venne l'idea del gioco, di far sparire il mio corpo. Immaginai che le mani ruvide di quella donna fossero uno strano tipo di raggi X, che lasciavano intatta la superficie e rendevano invisibile l'interno. Quando finì di perquisirmi mi sentivo leggera come l'aria, senza pelle, senza ossa. Per non rompere l'incantesimo avrei dovuto astenermi da qualsiasi contatto con una superficie solida, e soprattutto con gli esseri umani: il trucco avrebbe funzionato soltanto finché fossi riuscita a non farmi notare dagli altri. Di quando in quando, ovviamente, avrei fatto riapparire una parte di me, magari per sfidare i rappresentanti dell'autorità lasciando intravedere una ciocca di capelli, oppure spalancando gli occhi per fissarli e metterli a disagio.
A volte, quasi senza accorgermene, ritiravo le mani nella maniche e cominciavo a toccarmi le gambe e lo stomaco. Esistono? Esisto, io? Questa pancia, questa gamba, queste mani? Purtroppo i guardiani della rivoluzione e gli altri garanti della nostra moralità non guardavano il mondo con i miei stessi occhi. Loro vedevano mani, volti e rossetti; dove io vedevo una specie di fantasma che fluttuava etereo e silenzioso lungo la strada loro individuavano ciuffi ribelli e calzette sovversive.
Nel frattempo continuavo a ripetere a me stessa e a tutti quelli che volevano starmi a sentire che le persone come me, ormai, avevano smesso di esistere. E questa sensazione, che sconfinava nel patologico, non era soltanto mia; tanti altri sentivano di aver perso il loro posto nel mondo."

(Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran)

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